Un film così grande da andare oltre il sé.

Come si può pensare di incastrare in meno di 35mm un peso del genere?

Perché cercare qualcosa in cui si sa già impossibile trovare soddisfazione? Qualcosa di perfetto che la tremante grana della pellicola non potrà mai catturare nella sua fredda “organicità”.

Guido in 8 ½ (Fellini, 1963) è in continua fuga. Interrogativi così lo opprimono. Cerca rifugio nell’unica casa che non potrà mai dargli alcun tipo di riparo: l’inorganico.

Quella enorme impalcatura è il suo tentativo di avvicinarsi a quella lontana astrazione, a un film “perfetto”. La paura di non saper voler bene che si scontra con l’umano bisogno di empatia. Scappare dallo “squallido catalogo dei propri errori” perché apparentemente non abbastanza.

Abbandona i suoi ricordi (la sua famiglia allargata), ciò che l’ha plasmato, a cui basta una misera passerella, per quel freddo ammasso di spine metalliche, per un’astronave che nemmeno esiste. Negli uffici della produzione le sue richieste vengono ascoltate, ma in fondo, probabilmente, tutti sono coscienti della superflua natura del lavoro per il confuso e astrattissimo film di Guido.

E poi cosa ne sarebbe di tutte le altre famiglie? In quanto regista lui le conosce bene, Guido.

E non parlo solo di quelle con braccia e gambe, parlo anche dei piccoli ammassi di cristalli d’argento pronti per essere attraversati da un fascio di luce che possa dar loro una forma che sia potenziale veicolo di empatia.

Sono anche loro famiglie. E fra queste due, infinite famiglie di dimensioni diverse. Nascono per via sostanzialmente meccanica, ma sono comunque tutte figlie dello stesso macro-processo che porterà prima o poi alla proiezione cinematografica.

Siamo noi a scegliere fino a che grado di dettaglio indagare sulla loro nascita, sulla loro riproduzione. È facile farsi distrarre dallo scorrere di eventi a dimensione umana a cui siamo tanto abituati, ma tutte queste famiglie sono sempre lì, pronte ad accoglierci, ognuna in modo diverso, nella casa del Cinema.

Tra una proiezione e l’altra restano lì, a dormire. Tutte nello stesso contenitore.

Il grigio chiaro e la sua fraterna sfumatura un pochino più scura si guardano, il nero assoluto (padre) e la base trasparente (madre) si abbracciano. Così per 24 volte al secondo.

Nel loro susseguirsi nel tempo, ecco nascere altre famiglie, questa volta a dimensione umana. Tutta un’illusione, ma la musica di Rota le dà solidità. E anche l’abbraccio musicale ha la sua genealogia. Frequenze e armonici, note e ritmi, fino ai brani e ciò che arriva al cervello come totalità sonora.

Lo stesso viaggio lo sta iniziando Fabietto in È stata la mano di Dio (Sorrentino, 2021).

Ammette di aver visto al massimo “tre, o quattro film”, eppure qualcosa lo spinge verso il mezzo. Quel VHS di “C’era una volta in America” non sa più dove proiettarlo ora che la sua famiglia si è disintegrata. È forse questa mancanza che lo porta a iniziare la ricerca a cui anche Guido sembra condannato?

Guardiamo dal finestrino del treno il paesaggio che cambia con musica nelle orecchie. Cambiamo qualcosa nella nostra vita perché vogliamo che non cambi nulla (“facile” scappare dalla confusione). E tutto questo ci distrae un pochino. 

C’è chi lo fa incastrando se stesso in una punta di grafite, chi in una lente di vetro, chi in un pennello e chi in uno scalpello.

Non prendiamoci troppo sul serio, è la ricerca stessa il rito che stiamo cercando. Su una misera passerella sotto al set più intricato, inutile e decadente che ci si possa immaginare.

Quella confusione vorticosa siamo noi.

Scritto da Gian Paolo Gigante

Famiglie ai sali d’argento (casa di chi scappa da ciò che appare scadente)