Xavier Dolan, attore e cineasta québécois classe 1989, è una delle voci più interessanti e dirompenti dell’attuale panorama cinematografico. La critica internazionale l’ha ribattezzato enfant prodige del cinema contemporaneo sin dal suo lungometraggio d’esordio, J’ai tué ma mère (2009), da lui scritto, diretto e interpretato a soli 19 anni. Dopo quel primo film, standing ovation al festival di Cannes, ne sono arrivati altri sette, mentre l’ultima fatica del regista canadese è stata The Night Logan Woke Up, serie televisiva thriller ancora inedita in Italia. 

Dolan, nel corso degli anni, ha saputo rendere il suo cinema unico e immediatamente riconoscibile; non solo grazie alla sua cifra stilistica fatta di primissimi piani capaci di scavare nell’anima dei personaggi, o di rimandi alla cultura pop anni ‘90 con cui è cresciuto, ma anche per la presenza costante delle tematiche a lui più care e il più delle volte di ispirazione autobiografica. Forse ciò che verrebbe in mente ai più, in questo senso, è che la quasi totalità dei suoi protagonisti maschili sono omosessuali, come lo è Dolan stesso, spesso interprete dei propri film e che, di fatto, nasce come attore ancor prima di appassionarsi a ciò che succede dietro alla macchina da presa. In questa analisi, però, ci concentreremo su un altro dei temi carissimi al regista, già esplicitato dal titolo del sopracitato film d’esordio, J’ai tué ma mère, letteralmente “ho ucciso mia madre”. 

Il legame madre-figlio, infatti, è uno dei tòpos che ricorrono più spesso al centro delle opere di Xavier Dolan. I padri sono quasi sempre del tutto assenti, mentre le madri sembrano fin troppo presenti. Creature complesse che dentro di sé trasportano la forza di interi mondi, trainati dall’amore incondizionato e a tratti esasperato – ed esasperante – nei confronti del figlio. Perché sempre di amore si tratta, quando assistiamo al rapporto che lega una madre al proprio figlio in una storia firmata da Xavier Dolan, ma di un amore violento e problematico, come in Mommy (2014), considerato il capolavoro del regista, oppure miope, come quello che Martine prova per Louis-Jean in È solo la fine del mondo (2016): una reunion familiare dove tutti i presenti parlano ma nessuno riesce a comunicare davvero. Amore che, al tempo stesso, non sempre viene ben recepito dal figlio: solitamente adolescente o comunque molto giovane, tormentato da drammi interiori e pertanto incapace, alle volte, di comprendere questo sentimento così complesso. E si potrebbe azzardare dicendo che Xavier Dolan sia uno di quegli autori che riesce meglio nell’intento di rendere la complessità dei rapporti umani attraverso lo sguardo della macchina da presa, che si muove sinuosa tra gli sguardi e tra i corpi, per poi mostrarci anche tutto ciò che quei corpi e quegli sguardi racchiudono. 

Ma vediamo adesso, più da vicino, quali sono i film dove Dolan ha dato maggiore importanza alla rappresentazione del rapporto madre-figlio. Iniziamo proprio con J’ai tué ma mère, il film più autobiografico di tutti per stessa ammissione del regista durante svariate interviste. Un’ultima premessa: che il suo cinema sia piuttosto egoriferito e che talvolta rischi, potremmo dire, di sembrare autocelebrativo, non è mai stato un segreto. Ciononostante, il risultato finale dà sempre vita a storie in grado di poter parlare a tutti. 

In J’ai tué ma mère seguiamo le vicende legate alla vita di Hubert (Xavier Dolan), diciassettenne canadese che vive con la madre divorziata Chantale (Anne Dorval) nella periferia di Montreal. Sin dai primissimi minuti assistiamo ad alcune dichiarazioni di Hubert – rese attraverso una sorta di found footage – riguardo il suo rapporto conflittuale con la madre, un odi et amo che funge da filo conduttore per tutto il tempo della narrazione. Un giorno, a scuola, viene chiesto al ragazzo e ai compagni di intervistare i propri genitori; lui, pur di non doversi confrontare con Chantale, racconta all’insegnante (Suzanne Clément) che sua madre è morta, chiaro omaggio a I Quattrocento Colpi di Truffaut, dove il protagonista Antoine Doinel ricorre al medesimo espediente. Il rapporto tra Hubert e la madre, inasprito dall’accaduto, si nutre per lo più di accese discussioni (non è infrequente sentire frasi come “ti odio” o “non ti sopporto” urlate a gran voce) e dei vani tentativi di Hubert di trovare soluzioni impossibili, come l’idea di voler affittare un appartamento tutto suo. Interessantissima la resa scenica dei frequenti dialoghi tra i due, dove al classico campo-controcampo si sostituiscono primi piani decentrati, in cui gli interlocutori sono posizionati quasi ai margini dell’inquadratura, come a rimarcarne la distanza emotiva. L’inquietudine adolescenziale di Hubert e l’inflessibilità di Chantale, che pure viene molto delusa dal fatto che il figlio le abbia nascosto la sua omosessualità, alimenteranno un climax che porterà i genitori del giovane ragazzo – unico caso in cui viene mostrato anche il padre – ad iscriverlo in un collegio, ovviamente non senza scatenre i suoi tentativi di ribellione. Giusto, sbagliato, ingiusto ma necessario? Un interrogativo che è lecito porsi, ma inutilmente. L’intento non è (mai) quello di prendere le parti dell’uno o l’altro personaggio, ma è quello, piuttosto, di fornirci uno dei molteplici e possibili punti di vista su cosa comporta l’essere madre e l’essere figlio. E forse la risposta a sta tutta lì, cristallizzata nella scena in cui Chantale accompagna Hubert al collegio e lui, a quel punto furioso, con un tono di sfida le domanda: “che cosa faresti se morissi oggi?”, “morirei domani” sussurra lei, una volta che Hubert non può più sentirla. 

Alcuni aspetti di J’ai tué ma mère vengono ripresi da Xavier Dolan cinque anni dopo in Mommy (2014), il cui risultato, tuttavia, è diversissimo sotto molti punti di vista. Ancor più acclamato a Cannes, dove quell’anno vince il Premio della giuria, Mommy è un film più maturo, che porta sullo schermo un racconto molto più intenso – per non dire doloroso – e che per farlo si serve di alcune scelte stilistiche che lo hanno reso un unicum, basti pensare al formato 1:1. In questo film il regista riesce a mettere sul piatto un ensemble di emozioni potentissime, sferrate come fossero dei pugni nello stomaco. Il perno che rimane fisso però è sempre quello: l’amore, ancora una volta disperatamente complesso, tra una madre e il proprio figlio. 

Siamo di nuovo in Canada, nei sobborghi di Montreal, e Diane (abbreviato in “Die”, ancora una Anne Dorval piena di talento), madre vedova, si ritrova a dover gestire Steve (Antoine-Olivier Pilon), il figlio quindicenne affetto da disturbo di deficit dell’attenzione e iperattività, cacciato dalla struttura di recupero dove si trovava dopo aver provocato un incendio e alcuni gravi danni a un compagno. Dolan si immagina una legge fittizia e parecchio controversa, la S-14, che, in casi di emergenza, permette ai genitori di poter ricorrere a un ricovero coatto dei figli presso un istituto psichiatrico senza dover seguire alcun iter giudiziario. Il legame tra Diane e Steve è alimentato da contrasti: a momenti tenerissimi di affetto incondizionato si alternano litigi ultra violenti, spesso provocati dagli improvvisi scatti d’ira del ragazzo, che mal riesce a controllare i propri impulsi. Die è piena d’amore per Steve, ma allo stesso tempo non può che assumere atteggiamenti autoritari, per non finirne sopraffatta. Steve, dal suo canto, prova per Die un amore che a tratti somiglia a un’attrazione sentimentale (è gelosissimo del vicino di casa che la corteggia a ogni buona occasione), e che tuttavia spesso si trasforma velocemente in gesti di rabbia e insulti irrispettosi. A portare un po’ di equilibrio nelle vite della peculiare famiglia è Kyla (Suzanne Clément), la dirimpettaia, premurosa insegnante in anno sabbatico e affetta da balbuzie a causa di un trauma ignoto, che dopo delle prime reticenze si offre di aiutare Steve nel preparare gli esami scolastici. Tra i tre sembra nascere una virtuosa sintonia che inizialmente porta un po’ di tranquillità a tutti: Steve si affeziona a Kyla che riesce a farlo studiare e Diane può tornare a lavorare senza troppe preoccupazioni. È qui che arriva l’intuizione geniale di Dolan di passare dal claustrofobico formato 1:1 a quello 1,85:1, così da adattare tutto ciò che vediamo sullo schermo a questa insolita serenità. Le cose però tornano presto a complicarsi, quando Diane scopre che deve pagare 250.000 dollari per i danni subiti dal compagno di Steve a causa dell’incendio. Da qui si innesca un crescendo di tensioni che culminano, da un lato, con un gesto dimostrativo ed estremo da parte del ragazzo – deciderà di tagliarsi un polso al supermercato – dall’altro con la decisione di Diane, ormai esasperata, di avvalersi della legge S-14 per far ricoverare il figlio. Viene da chiedersi: per una madre dove finisce l’amore per i figli e dove inizia l’amor proprio? E qual è il prezzo da pagare per quest’ultimo? Che poi, siamo sicuri che si tratti di amor proprio, o magari Diane agisce nella speranza che una struttura psichiatrica riesca a “salvare” Steve dove lei crede di aver fallito? Mommy è un film doloroso perché, a differenza di J’ai tué ma mère, ci mostra che i due protagonisti sono legati da un sentimento dirompente, forse troppo. E nel dolore di quella separazione finale non è difficile riconoscersi: la perdita è un’esperienza universale. Dolan, tuttavia, ci offre una soluzione consolatoria quando Steve riesce a scappare dagli infermieri e inizia una corsa liberatoria lungo gli asettici corridoi della struttura che lo ospita. Il tutto accompagnato dalle note di Born to Die di Lana del Rey, un lucido riferimento al nome della madre Diane. 

Un’ultima e più breve riflessione merita di essere maturata a proposito di altri due film di Dolan, dove il rapporto madre/figlio non è centrale come nei due titoli appena visti, ma rappresenta comunque un tema importante all’interno della narrazione. Ci stiamo riferendo a È solo la fine del mondo (2016) e La mia vita con John F. Donovan (2018). Nel primo, ispirato all’omonima pièce teatrale di Jean-Luc Lagarce, il protagonista Louis-Jean (il compianto Gaspard Ulliel) decide di tornare a casa della propria famiglia – composta dalla madre, dalla sorella, dal fratello e dalla cognata – dopo 12 anni di assenza, per comunicare loro la sua imminente morte a causa di un cancro. In questo caso, quindi, il film non si concentra solo sul legame tra Louis-Jean e la madre Martine, ma assistiamo a una pluralità di rapporti umani  tutti accomunati da una difficoltà estrema nella comunicazione tra i vari personaggi coinvolti. L’occasione scelta per ritrovarsi è un pranzo domenicale, e per tutto il tempo si impone sulla scena uno scontro di voci aggressivo e confuso, senza che Louis-Jean riesca mai a sentirsi a suo agio per raccontare ai propri cari la sua verità: il fratello non perde occasione per rimproverargli i lunghi anni di assenza, la sorella minore ne sembra affascinata ma senza conoscerlo affatto, mentre la madre Martine si fa prendere da facili entusiasmi speranzosa di ricucire i legami col figliol prodigo. L’unica che pare in grado di decifrare i pensieri e il turbamento di Louis-Jean è la cognata Catherine (Marion Cotillard), la sola che con lui non condivide un legame di sangue. È solo la fine del mondo mette in scena i limiti dei rapporti inariditi dalla distanza e dalle incomprensioni, e ci offre anche un’importante riflessione sullo scorrere inesorabile del tempo e su come decidiamo di impiegarlo. Situazione in parte analoga viene riproposta in La mia vita con John F. Donovan, che affronta il tema del divismo e che si sviluppa attorno allo scambio epistolare di un bambino undicenne (Jacob Tremblay) con il suo idolo John Francis Donovan (Kit Harington). Accusato da gran parte della critica di contenere troppi riferimenti alla stessa filmografia di Dolan, il film ripropone in effetti una situazione molto simile, seppur qui solo accennata, al pranzo di famiglia che vediamo in È solo la fine del mondo. In questo caso è Donovan a partecipare alla rimpatriata, dove i familiari, piuttosto che interessarsi realmente al suo stato d’animo, lo riempiono di domande sui suoi nuovi progetti, mentre la madre (Susan Sarandon) lo punzecchia dandogli dello snob, perché ormai persona di spicco del mondo dello spettacolo. Anche qui il protagonista, che in realtà soffre di gravi episodi depressivi, pare incompreso da tutti fuorché dal fratello e dal piccolo Rupert con cui intrattiene la corrispondenza epistolare. Rupert, a sua volta, ha un rapporto conflittuale con la madre Sam (Natalie Portman): nonostante il grande affetto che li lega, non mancano incomprensioni e litigi in cui Rupert le rimprovera alcune scelte sbagliate o il fatto di essere una “fallita” per non aver sfondato nella recitazione. A differenza degli altri film citati, tuttavia, tra Rupert e Sam assistiamo infine a una riconciliazione esplicita, dove la forza del loro legame pare aver la meglio su qualsiasi conflitto. 

Non è semplice parlare di un autore che a poco più di 30 anni ha già fatto scuola – e che ha pure dichiarato di non voler più fare film – senza rischiare di cadere nel banale o nel già detto. Ci pare necessaria, tuttavia, un’ultima considerazione sulla sincerità con cui Xavier Dolan riesce a dar forma ai suoi personaggi e alle loro storie. Forse proprio perché la sua più grande fonte di ispirazione è sempre stata l’esperienza personale. Le madri dei film di Xavier Dolan non sono sempre premurose, accondiscendenti e strabordanti di affetto. Sono madri con gli occhi stanchi e la pelle spessa, come una corazza, pragmatiche, risolute, talvolta disattente, altre volte egoiste. I figli, poi, spesso sono tutt’altro che amorevoli: capita che siano maleducati, poco rispettosi, volgari e immaturi. E l’amore che li lega è sì intenso, ma costantemente in bilico: va saputo maneggiare con cura per evitare danni permanenti. Insomma, i personaggi di Xavier Dolan sono esseri umani imperfetti, difettosi, fragili e bellissimi; ci somigliano. E così, come spesso accade con il grande cinema, succede che le loro storie sappiano somigliare alla vita più di quanto a volte non ne sia in grado la vita stessa. La loro rabbia sembra anche la nostra. Le loro risate sono contagiose. I loro turbamenti, perfettamente credibili. E in quelle inquadrature strette sugli abbracci tra madre e figlio ci accorgiamo di scorgere alcuni dei nostri ricordi più dolci.

Scritto da Ambra Farinelli

Approfondimento. La complessità del rapporto madre-figlio nel cinema di Xavier Dolan