Essere genitori non è cosa semplice. Dal momento della nascita di un figlio si è subito catapultati in una vera e propria esperienza fatta di alti e bassi, che come delle montagne russe di emozioni si manifesta nella sua imprevedibilità, segnata da un percorso talvolta impervio. In questo senso, la cinematografia ha sempre osato giocare con il tema della genitorialità, senza mai tirarsi indietro dal mettere in discussione la figura del genitore come caposaldo della crescita del figlio. Eppure, esiste un genere spesso ignorato quando si menziona questo tema e si tratta proprio dell’horror, genere che probabilmente più di qualunque altro discute meglio la rigida dicotomia tra le aspettative sociali del genitore e la fragilità parentale, che alla fine non è altro che parte della natura umana stessa.

Vi siete mai posti la domanda: “Fino a che punto la maternità e l’autonomia del proprio corpo possono essere manipolate da qualcun altro”? Il film “Rosemary’s Baby” di Roman Polanski (1968) risponde perfettamente a questo quesito, mostrandoci una visione della donna madre nell’alta società statunitense degli anni 60. Mia Farrow interpreta la parte di una giovane donna sposata che viene manipolata e controllata dal marito e dai vicini di casa per portare a termine una gravidanza non concepita naturalmente. A mio parere, il film riesce a sposare perfettamente la critica al controllo che gli uomini esercitano sul corpo delle donne con il tema della maternità. Rosemary è cosciente che esista qualcosa di strano, di sinistro nella nascita di suo figlio, eppure è pronta a sacrificare qualunque cosa pur di proteggerlo, persino quando significa dover scendere a compromessi con la sua stessa integrità morale. Talvolta, riguardando questo film, mi sono chiesto anch’io Fin dove può spingersi l’amore di una madre pronta sacrificare qualunque cosa per suo figlio? e questo a mio giudizio trova risposta solo nella scena finale, dove Rosemary, pur scoprendo della natura diabolica della sua gravidanza, decide comunque di prendersi cura di suo figlio. Il film ci lascia con un finale aperto, carico di suspence e dalla libera interpretazione, dove l’unica certezza è quella di una donna che accetta suo figlio nonostante la manipolazione subita per mano di altri. Perché, alla fine, l’amore materno è incondizionato.

O forse no?

Con il film “Carrie – Lo sguardo di Satana” (1976) possiamo compiere un ulteriore passo rispetto al precedente ed analizzare le circostanze di un rapporto genitoriale dove il tema dell’affettività è del tutto assente. La madre di Carrie, difatti, viene rappresentata come una donna profondamente religiosa ed iperprotettiva che sfrutta la sua fede per giustificare un comportamento abusivo nei confronti di sua figlia. Eppure, al di sotto di questa facciata di presunta missione di “salvezza divina” alla quale lei credeva di stare adempiendo, si cela solo odio puro. Un odio avventato e del tutto irragionevole nei confronti di  qualsiasi aspetto che riguardi il suo essere madre: dalla gravidanza indesiderata, portata a suo malgrado a termine, alla sua inabilità di accettare una figlia che si discostasse dalle sue aspettative. Si sa che quando un genitore proietta sul figlio le sue insicurezze ciò finisce per far sentire quest’ultimo solo e trascurato ed il film, in merito a ciò, non si risparmia certo sulla crudezza dei dettagli di questo rapporto deleterio. Carrie finisce preda della follia e ciò la porterà a vendicarsi di quelli che lei ritiene essere i suoi persecutori, inclusa sua madre. Una rivalsa contro un mondo umiliante ed un genitore opprimente, senza che ci venga offerta una consolatoria riconciliazione tra madre e figlia. Il climax raggiunto dal film è il risultato del tormento e della solitudine che logora Carrie, perché nessuno nella vita si è mai veramente preso cura di lei.

Come terminare questo confronto senza menzionare l’esordio al cinema della regista australiana Jennifer Kent, Babadook. In questo film del 2014, Kent analizza le dinamiche di un rapporto genitoriale toccando diversi temi, tra cui quello della salute mentale. La protagonista Amelia è una donna reduce dalla perdita di suo marito, ritrovatasi a dover crescere suo figlio per sei anni, senza essere riuscita ancora ad accettare il lutto. In questo senso, il mostro che perseguita la famiglia (questo fantomatico “babadook”) altro non è che una manifestazione stessa del dolore di Amelia, della parte più oscura e repressa di sé della quale non vuole ammettere l’esistenza. Il Babadook è l’incarnazione della sua mente travagliata, dei suoi istinti irrazionali fino alla depressione che la tormenta e la porterà per una buona parte del film a “disprezzare” suo figlio. Nonostante le premesse ben poco serene, credo che l’intento della regista fosse esattamente quello di mostrarci come non si possano cancellare del tutto i mostri del passato, ma al contrario si può crescere imparando a domarli. Accettare il Babadook per Amelia significa prendere consapevolezza della propria situazione familiare e non abbandonarsi all’irrazionalità o all’incapacità di interiorizzare il dolore. Rinchiudere il Babadook in cantina, come mostrato nella scena finale, non è un atto di codardia, bensì una presa di coscienza di una madre che realizza di non poter essere perfetta in tutto e che in lei coesisteranno sempre due realtà: bene e male.

In sintesi, la genitorialità nei film horror rappresenta un vero e proprio modo di operare per esaminare la complessità, le sfide ed i cambiamenti che caratterizzano le vite di figli e genitori. Forse le storie di Rosemary, Carrie o Amelia potrebbero anche non avervi particolarmente colpito, ma credetemi: l’horror è sempre stato in grado di stupire. Magari qualcos’altro esiste già in repertorio per voi, non vi aspetta altro che scoprirlo.

Scritto da Giulio Pierini

La paura ha un volto familiare — quando l’essere genitori incontra l’horror