“Narcissists are the ones who make it” è la frase con cui si conclude il resoconto del furto che prevede l’inizio della storia di Signe, ed è proprio lei a pronunciarla così a definire i contorni del suo stereotipo. Nel furto la ricerca di attenzioni non è solo la prima informazione che ci viene data su Signe sarà l’elemento che attraversando la quotidianità e il rapporto con Thomas congela entrambi in una trasposizione bidimensionale. Se la loro relazione fosse un teatrino mobile Signe sarebbe Barbie narcisista d’azzardo che gioca bilanciando l’impulso della ricerca di emozioni con la vergogna della scoperta inchinandosi senza nemmeno pensarci due volte, con un certo grado di solennità, ai propri istinti. Thomas la sua spalla, Ken artista emergente ossessionato da se stesso, alla ricerca continua di visibilità e celebrità. Due perfetti scalatori sociali accomunati dagli stessi vizi che, per quanto siano preoccupati della loro immagine nello showbusiness sembrano indisturbati dall’insofferenza degli amici alle loro manie di protagonismo rivaleggianti. Ma cosa succede quando questi vizi divengono mantice e fomite della competizione tra i due? Tutto si annebbia e Borgli ci porta ad esplorare la deriva morale di Signe verso luoghi sconosciuti, situazioni sempre più tragicomiche o solo tragiche.

-Sick of Myself (Syk pike) è un film del 2022 scritto, diretto e montato da Kristoffer Borgli.

Quando la carriera di Thomas come artista d’avanguardia e cleptomane decolla, Signe decide di riscattarsi assumendo sostanze estremamente necessarie e illegali che le procureranno una grave malattia cutanea. Se all’inizio il gesto ha come fine ultimo Thomas, il peggioramento delle condizioni di Signe e la sua ferma convinzione di non avere una personalità si sommano, e le deturpazioni del viso diventano il mezzo e la forma di una personalità più ambita: la sua identità pubblica. Il recupero del motivo di cronenberghiana memoria con cui Borgli metterà in scena le orribili mutazioni corporee di Signe per parlare della celebrità della vittimizzazione plasmano la satira drammatica su un body horror con tutti i crismi del genere.

In questa interessante esplorazione di quanto lontano si possa arrivare per farsi notare, per quanto estrema possa sembrare, è impossibile solo ridere. Ci sono dei pattern fin troppo riconoscibili da risultare in alcun modo confortevoli. È invece più probabile che la caratterizzazione dei personaggi risulti così provocatoria da indisporci in numerosi momenti durante il film; nonostante ciò, la scelta funziona perché è proprio l’antipatia verso Signe il veicolo più efficace per mettere in evidenza quella piccola parte del nostro cervello ossessionata da noi stessi. Così come la competizione sfrenata tra i due che sfrutta di volta in volta feticci differenti non è solo la valuta dell’attuale economia dell’attenzione ma il modo migliore per far trasparire un reale desiderio di prevalere l’uno sull’altro. In un mondo in cui l’ossessione per l’attenzione e la competizione definiscono il nostro valore, Sick of Myself ci pone di fronte a uno specchio distorto della società contemporanea. L’episodio conclusivo che vede Signe distesa, durante una sessione terapeutica, sul pavimento di una struttura comunitaria non è solo il punto finale di una storia provocatoria, ma un monito che risuona nella mente dello spettatore: forse, nel perseguire visibilità a ogni costo, rischiamo di diventare veramente “Sick of ourselves”.

Scritto da Diletta Coluccia

L’egocentrismo esasperato di Sick of Myself